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A cura di Dina Madau e della III-I Scuola Media Villacidro

USI E COSTUMI - LA VENDEMMIA NEGLI ANNI '50 IN VILLACIDRO

La raccolta dell'uva.

La vendemmia, ai tempi di mio nonno si faceva verso settembre - ottobre; all'alba si partiva con un carro trainato da un bue, un cavallo o un asino e si andava verso la vigna. Chi aveva più di una vigna cercava delle ragazze per tagliare l'uva.
Un tempo la maggior parte dei contadini e delle contadine andavano a piedi eccetto chi guidava il carro con il tino.
Sopra il carro c'erano gli attrezzi, il tino, le "bigonce" e i bambini che le mamme si portavano appresso.
Nei cesti ancora vuoti riponevano i fagotti con il pane e il formaggio, da mangiare la mattina, una brocca d'acqua per bere e per lavarsi le mani e un bel fiasco di vino.
Arrivati alla vigna gli uomini e le donne si avviavano tra i filari della vigna e cominciavano a tagliare l'uva.
Le donne lavoravano e cantavano allegramente e si raccontavano "contus" storie e barzellette perché per loro la vendemmia era una festa. Quando le bigonce erano piene, le donne le portavano sulla testa verso il punto di raccolta dell'uva: sul carro direttamente nel tino o per terra su un telo. Nel tardo pomeriggio quando il tino era bello pieno, gli uomini e le donne rientravano in paese, dove nelle cantine delle case si lavorava l'uva che doveva diventare vino.
Nella cantina era già pronto un tino grande dove si scaricava l'uva.


Preparazione delle botti.

Verso metà settembre di ogni anno quindi si incominciano a pulire e depurare le botti nella cantina.
Esse venivano lavate con acqua bollente unita a cenere, buccia secca d'arancia e di mela, a finocchio selvatico e a qualche foglia di alloro (laberi).
Tutti questi ingredienti si facevano bollire assieme (sa mussa) e caldissimi si gettavano dentro la botte che tappata, veniva poi fatta rotolare sopra una scala.
La botte poi veniva risciacquata più volte con acqua bollente pulita e per ultimo con acqua fresca.
La si lasciava scolare per due giorni e quindi veniva riposta nello scaffale della cantina; successivamente si metteva dentro, appeso a un fil di ferro, un po' di zolfo acceso (su luchitu), la botte veniva tappata così la fiamma poteva bruciare tutto l'ossigeno e impedire ai microbi di vivere; se la fiamma non si spegneva ciò significava che nella botte filtrava aria e potevano esserci delle perdite.
Una volta pulite e preparate le botti e gli attrezzi necessari, si poteva iniziare la vendemmia.
In base alla testimonianza da noi raccolta, parliamo della vendemmia degli anni '50.
Si mettevano il tinello (su cubeddu) e i cesti di vimini o canna nel carro e si andava a "sa binnenna", spesso dietro essi a piedi con le forbici o la roncola per tagliare i grappoli d'uva.
Nel cortile della casa, per lo più sotto il portico, il contadino (su mustadori) schiacciava l'uva con i piedi; poi il liquido ancora misto a impurità fuoriusciva da un foro del tino tenuto chiuso con un bastone, la parte più densa, cioè le vinacce restavano nel tino e venivano raccolte per ultimo per essere poi schiacciate nel torchio (sa pressa).
Per raccogliere un po' di mosto si usava una mezza zucca (croccoriga) come mestolo.
Il mosto quindi veniva versato con un imbuto (imbudu) dentro le botti, si usava calcolare con una brocca di latta (su decalitru) la quantità di liquido versata dentro e di volta in volta si segnava nella botte una breve linea (sa tacca).
Alla vinaccia ben schiacciata si versava una certa percentuale di acqua e la si lasciava raffinare per un paio di giorni, poi nuovamente pressata e il suo liquido (su piricciò) veniva lasciato decantare ancora per un paio di settimane, infine bevuto prima che fosse pronto il vino "buono". Con la sansa, l'ultimo prodotto di scarto della vendemmia veniva prodotta l'acquavite.
L'augurio dopo queste operazioni era quasi sempre:
"A sa bona salludi e a du gustai cun prascei atturusu annus!"
oppure
"Atturusu annusu cun salludi!".

 

Preparazione dell'acquavite.

Si costruiva un distillatore con due recipienti, uno dei due veniva riempito di vino (che poteva essere anche un po' acido) e si metteva a bollire nel fuoco.
Tramite l'ebollizione si formava il vapore che arrivava nell'altro recipiente dove veniva situata una serpentina che passava in mezzo all'acqua, ciò permetteva il raffreddamento del vapore che si condensava e precipitava sotto forma di liquida.
Così avveniva l'uscita dell'acquavite, goccia per goccia, quindi molto lentamente.
Da 10 litri di vino si ricava circa un litro di acquavite e questa quantità la si ricavava dopo un'ora circa di distillazione.
L'acquavite un tempo, come del resto anche oggi, veniva prodotta illegalmente dalla famiglia in quanto la legge ne vietava la produzione casalinga. Una volta fatta, la si versava nelle bottiglie, le quali venivano appese con un filo di ferro in un luogo segreto della casa, oppure le sotterravano lasciando fuori appunti il filo di ferro pèrchè potessero essere ritrovate al momento opportuno.
Per questo in sardo si chiama "su fiu 'e ferru" soprattutto nel Nuorese, dalle nostre parti la chiamiamo invece, "s'acqua drenti" cioè acqua molto forte.
(Allessandra Follesa e Sara Mura)

Anche Giuseppe Dessì in Paese d'Ombre si sofferma a descrivere la produzione di "filu 'e ferru" in Villacidro.
Racconta che da tempo immemorabile la gente di Norbio distillava la terribile acquavite con mezzi artigianali e che in nessuna casa mancava il rudimentale alambicco di rame.
Il prodotto veniva venduto a Cagliari dove era gravato di un dazio esorbitante.
Racconta inoltre che nel paese una commissione di esperti era stata incaricata di effettuare controlli durante i quali molti alambicchi vennero sequestrati perché non erano stati costruiti secondo la norma. Infatti pare che l'acquavite avesse creato disturbi di pancia e da quel momento si incominciò a produrla clandestinamente.
Se ne Beveva molta e la si utilizzava contro i mali, per disinfettare le ferite, per prevenire la malaria e le infreddature e per imbevere i succhiotti dei lattanti.
(Cfr. pg. 258, op. cit., ed. Oscar Mondatori).

Durante un uscita nel paese, in Via Nazionale, attraverso una finestrella abbiamo fotografato una cantina abbandonata.
Da notare le botti del vino, appoggiate su due travi, il fondo di una damigiana rotta e tante bottiglie impolverate.
Le botti hanno dei rubinetti e un foro in alto che si chiude in genere con un tappo di sughero.

 

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