LA VITA IN CAMPAGNA
LA MIETITURA
- SA MESSA
PIAZZA FRONTERA
Verso il 15 giugno, la piazza Frontera di Villacidro brulicava di uomini armati di una sacca o zaino e di una falce, sa fraci. La lama ricurva e tagliente, leggermente dentellata, era avvolta in un panno in modo da non incappare inavvertitamente nelle mani, sarebbero stati guai.
Sembrava di essere al mercato degli schiavi.
Arrivavano dalla Marmilla e dalla Trexenta ed erano buoni mietitori, messadoris. Qualcuno giungeva in bicicletta, i più a piedi e dal 1915, quando fu istituita la linea ferroviaria a scartamento ridotto Isili - Villacidro, anche col trenino.
Trascorrevano le notti in paese, in attesa che qualche
roprietario li prendesse a lavorare, dormivano all’aperto nel ripiano davanti alla casa Giunti, nella piazzetta di fronte al mercato pubblico, o nel loggiato dell’Oratorio del Rosario, sa lolla de Nostra Signora.
La sera sul tardi, i possidenti si presentavano in piazza e contrattavano is messadoris di cui avevano bisogno. C’era anche chi ne assumeva solo uno, quasi certamente era un capo famiglia che aveva seminato un lotto di grano per provvista.
La loro paga non era granché, ma oltre a qualche centinaio di lire, c’era chi dava il cibo: pane, acqua, patate bollite e cipolle, che venivano condite con olio sale e aceto, a intzalada. Qualcuno dava loro anche un po’ di vino, ma non tutti.
Passavano da un padrone all’altro fino al termine delle messi; poi, tornavano nei loro paesi a mietere quel grano, che ordinariamente maturava più tardi.
A MESSAI (LA MIETITURA)
La falce doveva essere ben tagliente, il rifacimento della tempra, s’azraxadura, veniva fatta dal fabbro.
I mietitori lavoravano tutto il giorno e talvolta, durante le notti di luna piena, anche la notte, fermandosi solo l’indispensabile per un poco di riposo.
Alle prime luci dell’alba, tutti in fila affrontavano sa tenta, il fronte da mietere. Con la destra tenevano la falce, con la mano sinistra reggevano il mannello di grano mietuto, su mannugu, che legavano con la stessa paglia, avvolgendola intorno, successivamente lo posavano uno sopra l’altro. Quando avevano fatto sette mannugus, li legavano insieme, imbrocibànt impari, sempre con alcuni steli dello stesso grano, e formavano un covone, sa màiga, che veniva deposto in piedi, con le spighe rivolte verso l’alto.
Per proteggersi dalle ariste acuminate, indossavano indumenti di tela robusta: dei manicotti sugli avambracci, is manixibis, e un grembiule sul davanti, su pann’ ‘i ananti. Oltre a un copricapo, portavano un fazzoletto, su mucadori, che per l’occasione veniva messo tra la nuca e il cappello, svolazzante sul collo, per proteggere dai raggi cocenti del sole e dai moscerini.
Si dissetavano con dell’acqua che procurava il padrone in una sorta di brocca di terracotta con un lato piatto, su frascu, o con una botticina, su carradeddu, che venivano ricoperti di paglia, per tenere l’acqua un poco fresca.
Solitamentemietevano a cottimo, is messadoris messànt a scarada. I cottimisti facevano a sfida a chi fosse il più bravo; il vincitore si creava una fama che si spargeva tra i proprietari. I più abili, per dimostrare la loro maestria, tagliavano il grano attorno al compagno più lento, dd’accorrànt, e questo era considerato uno sfregio che i più giovani, crescendo in bravura, avrebbero cercato di contraccambiare.
Il padrone spesso mieteva insieme ai mietitori cercando di dar loro l’esempio in velocità e destrezza.
Dietro is messadoris, seguivano le spigolatrici, is ispigadrixis. Quasi sempre ce n’era una per ogni mietitore e dovevano essere autorizzate. Raccoglievano le spighe che immancabilmente cadevano sul terreno, in molti casi dividendo il raccolto col padrone del seminato, in tal modo procuravano la provvista del grano per la famiglia.
Le donne aiutavano anche il proprietario a caricare, sollevando i covoni e porgendoli con il forcone bicorno dal lungo manico, sa frocidda de aporri màiga, a chi stava sopra il carro, il quale poi li intrecciava in modo che gli scossoni non li rovesciassero a terra.
Il carro a buoi o a cavallo era attrezzato con una sovra sponda, sa carruba, fatta da un telaio di bastoni alto circa due metri che serviva per aumentare la capacità del carico.
S‘ARXOBA (L’AIA)
Caricata sa carruba, il prezioso carico veniva trasportato, seidai, all’aia, s‘arxoba. Spesso era appositamente costruita in su padru dello stesso padrone; i piccoli proprietari la chiedevano in prestito, non tutti ce l’avevano.
Era formata da una pista a forma circolare di una decina di metri di diametro o anche più, con sottofondo a massicciata e uno strato di terra ben battuta che doveva sostenere gli zoccoli delle bestie, buoi o cavalli che vi correvano o camminavano per frantumare i covoni, trebai.
La pista non veniva mai arata e restava intatta nel tempo, a disposizione per la stagione successiva.
Quando si avvicinava il periodo della mietitura, l’aia veniva ben pulita e scopata con un ramo arcuato di fillirea o di olivastro, is scovas de linna, in pianura usavano anche il verbasco, su cadumbu. Venivano riassettate eventuali buche aperte da formiche o da altri animali.
I covoni erano collocati partendo dal centro verso l’esterno, in tondo, con la parte tagliata poggiata a terra e le spighe verso l’alto, lasciavano attorno solo un piccolo spazio per passare. Così disposti formavano la bica, su patroxu.
Quando la pista era completamente piena, iniziava la trebbiatura vera e propria, a trebai.
Intanto, scaricata sa carruba, il carro ripartiva verso il campo che si stava mietendo, dove era pronto altro carico.
SA TREBADURA (LA TREBBIATURA)
Si introducevano il cavallo o i cavalli, che variavano di numero e potevano essere anche dieci, legati uno a fianco all’altro con la cavezza e col paraocchi, su frenu cun is ochialis. Si poneva il paraocchi perché non potessero guardare dietro, perché i cavalli sono animali molto timorosi. Una fune passava da una cavezza all’altra ed era tenuta da un uomo, o anche da un ragazzo, che fungeva da palo al centro della pista, incitando le bestie a ruotare sopra i covoni ammonticchiati. Prima le spingeva al passo, a causa della difficoltà che avevano nel procedere, perché le loro zampe affondavano fin oltre le ginocchia tra gli alti covoni.
Alle estremità della schiera dei cavalli, ce n’erano sempre due già ben addestrati, in mezzo potevano esserci anche cavalli che venivano domati, in domas, gradatamente seguendo l’andamento degli altri. Dopo un certo numero di giri, veniva invertito il senso di marcia. Lo facevano per non far “ubriacare” il cavallo interno e anche per sminuzzare meglio le spighe che liberavano i chicchi, i quali si depositavano sul fondo della pista.
Gli uomini non impegnati coi cavalli, a rotazione, armati di forcone, travutzu, si muovevano intorno alla pista, rigettando sotto i piedi delle bestie quello che esse, col loro passaggio, spargevano fuori.
Lavoravano soprattutto quando il sole era più caldo in modo che il fieno e le spighe fossero ben aride e si spezzettassero meglio.
Per completare l’opera, perché tutto fosse ben frantumato, trebau, gli operai con su travutzu, ribaltavano completamente fieno e spighe, furriai s’arxoba, ormai quasi sminuzzate del tutto.
Per la trebbiatura, spesso, al posto dei cavalli locali, venivano aggiogati cavallini della Giara. Spesso usavano i buoi. Allora il lavoro procedeva più lentamente. A essi veniva legato un masso in granito, sa pedra de trebai, con una catena che partiva dal giuntale, su giuabi. Questa frantumava rapidamente il grano.
Alle bestie che lavoravano in s’arxoba, veniva messa una museruola di rete metallica, sa sporta, che impediva loro di mangiare il fieno caldo, durante il lavoro. Gli animali avrebbero perso tempo e avrebbero avuto dei problemi di digestione.
Più volte le aie, con il grano o con la sola paglia, andarono a fuoco causando non pochi danni, talvolta per incidente altre per dolo.
A custodia dell’aia vi era il guardiano, su castiadori, armato di fucile.
Il 30 di luglio 1963 un acquazzone improvviso causò la morte di un bambino nel rio Fluminera in piena. Le aie erano ancora in piena attività e il grano, che vi si trovava in attesa di essere trebbiato, germogliò tutto andando interamente perduto.
SA BENTUADURA (LA VENTILAZIONE)
Finita la trebbiatura, le bestie potevano riposare, subentravano uomini e donne che ammonticchiavano il grano formando s’arega, così veniva chiamato il mucchio di grano ancora misto alla paglia.
A questo punto si iniziava a ventilare, a bentuai.
Si sceglieva una giornata ventosa, anzi la si aspettava, altrimenti non si poteva procedere; succedeva spesso che il vento si assentasse per settimane, tenendo is abentuadoris fermi.
Si era ormai alla metà di luglio e, a dare una mano, per tradizione, venivano is bentus de su Cramu. Il 15 luglio, infatti, a Villacidro iniziava la novena in onore della Madonna del Carmine che veniva invocata perché portasse il vento indispensabile per ultimare la mietitura. Il 16 luglio, sa dì sua, i devoti, in segno di rispetto, non svolgevano alcun lavoro servile, poiché era tradizione far festa in onore della Madonna. Si diceva che chi si fosse avventurato a lavorare in quel giorno, sarebbe stato punito con qualche disgrazia.
Giungeva finalmente il vento estivo.
Con i forconi, is travutzus de abentuai, poi con pale in legno di castagno, is pàbias de arxoba, lanciavano in aria grano e paglia, il vento deviava a lato la paglia, più leggera, mentre il grano ricadeva a piombo a terra.
La ventilazione avveniva in più passaggi, ora in un senso ora in un altro, sempre seguendo la direzione del vento.
S’INCÙNGIA (IL RACCOLTO)
Alla fine, il grano veniva insaccato e portato nei granai, incungiadura. I sacchi, dal peso di circa un quintale, venivano riposti in una stanza, su sobàriu, a piano elevato con pavimento di legno a cui si accedeva tramite una scala, anch’essa di legno
Talvolta i proprietari avevano dei silos, sa lòscia, un corpo cilindrico costruito con canne spaccate, canna sperrada, a strisce e intessute l’una con l’altra. A circa 20 cm da terra vi era una apertura di circa 20 per 20, tenuta chiusa da una serrandina scorrevole, in legno o lamiera che permetteva la fuoriuscita in modo controllato del grano al momento della vendita o dell’uso. Anche sa lòscia veniva caricata dall’alto, naturalmente a mano.
SA MACARRONADA (LA MANGIATA FINALE)
A fine raccolto, in genere, il padrone offriva ai collaboratori un pranzo a base di pasta asciutta, sa macarronada, che era anche il ringraziamento per la mietitura portata a termine. La padrona, sa meri, offriva ai lavoranti nell’aia un grande insalatiere, unu saleteri, o addirittura un lavamani, unu lavamanu, o anche una conca di terracotta, scivedda, di pasta, a seconda delle persone che vi avevano lavorato. Insieme alla pasta già condita, donava dell’insalata di cipolle e patate, o delle patate rosolate col prezzemolo.
— Su —
© Tutti i diritti sono riservati.
by pisolo