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VILLACIDRO: TRADIZIONI

A cura di SU DINDU

SU DINDU
LA VITA NEI BOSCHI - UN GIORNO CON I CARBONAI
UNA DI' CUN IS CRABONAIUS

I carbonai svolgevano un’attività complementare a quella del taglio della foresta.
   Anch’essi, come i taglialegna, giungevano sui monti a squadre, con i loro pochi attrezzi e i poveri vestiti. Per la maggior parte provenivano dalla Toscana. Assegnato il lotto, si affaccendavano per costruirvi rapidamente una capanna in cui alloggiare, che edificavano a forma quadrangolare, in pietra e legname del bosco, allo stesso modo di quella dei tagliaboschi. Nei pressi montavano una cote, che utilizzavano per affilare gli arnesi da lavoro.

Erano divisi in compagnie formate da tre o quattro persone, spesso familiari e, in molti casi, con la presenza della moglie del capo compagnia. Una comodità? No, era l’esigenza di avere due braccia in più, infatti le donne lavoravano quanto gli uomini.

LE SCARPE DI FICO

Edificata la capanna, cercavano qualche albero di fico per farsi le scarpe. Usavano quel legno come suola, perché costituisce un ottimo isolante e resiste ad alte temperature; ed essi dovevano lavorare in mezzo al carbone rovente. Gli alberi li trovavano in riva ai torrenti o in qualche sito umido.
Nel bosco sceglievano accuratamente dei rami sufficientemente lunghi e dritti e con essi costruivano i rastrelli, utilizzando il trapano a mano, sa barrina, per creare i fori su cui infilare dei rametti corti e arrotondati che fungevano da denti.



IS FOGÀIAS

Tutto era pronto. Non rimaneva che studiare con molta attenzione il punto in cui fare la carbonaia, lì avrebbero accatastato il legname da trasformare in carbone.
Durante gli ultimi tagli, spesso recuperavano le piazzole usate precedentemente. In questo caso, il lavoro era minore: le ripulivano da eventuali cespugli ed alberi novelli che vi fossero cresciuti, quindi le ricoprivano con uno strato di terra molto fine e senza sassi, in modo che la base risultasse perfettamente in piano.
I tagliaboschi trasportavano il legname appezzato in quegli spiazzi, fogàias. I carbonai collaboravano costruendo le piazzole il più vicino possibile al luogo del taglio. A quel punto, il capomacchia o un suo rappresentante cubava e quantificava la legna accatastata ai bordi della piazzola, quindi dava il consenso ai carbonai che potevano proseguire il loro lavoro.

IL CASTELLETTO

camino per carbonaia Al centro della piazzola, con fasci di ramicci, rami dal diametro sugli otto o dieci centimetri, iniziavano a costruire la carbonaia, a forma circolare.
Tagliavano in due i ramicci, che all’origine erano della lunghezza di un metro, e li disponevano paralleli, incrociandoli con altri due, in modo da formare un quadrato. Proseguivano, soprapponendo due pezzi in un senso e due nel senso opposto, fino a raggiungere l’altezza di un metro, la stessa dei ramicci e dei tronchi tagliati dai tagliaboschi. Ottenevano in tal modo un castelletto che si teneva in piedi da sé, anche perché i carbonai erano abili nello scegliere i tronchetti di uguale spessore.
Raggiunto il metro d’altezza, collocavano in senso verticale, intorno al castelletto, i tronchi che prendevano man mano dalle cataste attorno. Continuavano fino a raggiungere una base sufficientemente larga da poterci salire per continuare la costruzione del castelletto per un altro metro di altezza e disporre la legna anche nel secondo strato. Mentre la catasta si innalzava, allargavano anche la base fino ad occupare tutta l’area, lasciando solo lo spazio minimo per poterci lavorare attorno.

LA CATASTA

La catasta era collocata con una tecnica ben precisa che teneva conto anche della diversa dimensione dei tronchi e quindi del diverso tempo di “cottura” necessario, cosa molto importante che i carbonai conoscevano bene per lungacatasta esperienza. Ne risultava una catasta a forma di grosso cono a culmine arrotondato.
A questo punto, ricoprivano il cumulo con uno strato di frasche rivolte verso il basso.  Rivestivano l’intera catasta con delle zolle di terra, lasciando libera la bocca del castelletto.
Sopra le zolle, pigiavano ben bene, con le mani, della terra sottile appositamente selezionata, completamente priva di pietre, in modo da impermeabilizzare il cumulo, almeno per quanto riguardava l’aria.
L’operatore tagliava dei ramicci sottili, a pezzetti di circa dieci centimetri, li caricava su un corbello e li portava, con l’aiuto della scala, in cima alla carbonaia. Il corbello era un contenitore portato dalla Toscana e procurato dalla ditta che si occupava dell’appalto. Nulla aveva a che vedere con i cesti sardi fatti di olivastro e canne. Erano costruiti con strisce larghe di un legno particolare, resistente al calore e molto adatti a quell’uso.
Riponeva sulla bocca del castelletto, rimasta libera, due tronchetti non molto grossi, a forma di croce. Servivano a trattenere sa mannuga, un mazzo di frasche per accendere il fuoco.

LA SCALA

Nel frattempo, qualcuno costruiva una scala. Ricercava un tronco di leccio ricurvo della grossezza di dieci - dodici centimetri di diametro alla base, lo divideva a metà e lo sgrossava, abilmente, a colpi di accetta; con il trapano praticava dei fori a distanza uguale sui quali conficcava i pioli, che sarebbero serviti da gradini. La scala era costruita senza alcuna legatura né chiodatura, con una curvatura naturale ottenuta dai tronchi arcuati, che le permetteva di aderire al corpo sulla carbonaia.

"DAR DA MANGIARE ALLA HARBONARA"

carbonaia

L’esperto accedeva la carbonaia introducendo della brace nella parte alta del camino, aggiungeva gradatamente della legna sottile, in modo da facilitarne l’accensione. Man mano che la legna in cima bruciava, la brace cadeva sul fondo del castelletto fino ad ottenere un focherello; quindi, toglieva la croce che serviva da griglia e pian piano alimentava direttamente la fiamma che si era formata alla base.
Ora sostentava il fuoco con legni più grossi, sempre molto corti, fino a riempire il castelletto. I tronchetti si consumavano lentamente producendo il calore che man mano si propagava in forma di fumo sull’intera catasta.
Chiudeva la bocca del camino, ma il fuoco non si spegneva, perché alimentato dall’ossigeno contenuto nella legna fresca e da quello proveniente dall’esterno, attraverso opportuni fori.
Quegli uomini chiamavano l’operazione di carico del castelletto “Dar da mangiare alla harbonara” con la loro tipica parlata toscana. L’operazione veniva ripetuta ogni 24 ore o forse ogni 12.

LA COTTURA

La carbonaia doveva rimanere accesa, ma non far bruciare i tronchi, per far ciò i carbonai seguivano l’andamento con maestria. Con un piolo di legno praticavano alcuni fori attorno, a diverse altezze. Servivano a far circolare il calore che partiva dal centro della catasta, fino all’estrema periferia. Dosavano, con assoluta precisione, la temperatura e l’aerazione, in modo da “cuocere” la legna senza fiamma così da trasformarla in carbone. Lasciavano sfiatare i fori per un certo numero di ore e poi li tappavano con nuova terra. Il fumo che fuoriusciva era di un colore azzurrino e l’odore era quello acre del carbone. carbonaia
Nella catasta vi erano ammucchiati in genere 90 quintali di legna, dalla quale si ricavavano circa 40 quintali di carbone. La “cottura” durava per circa nove giorni ma oltre un certo tempo, era l’occhio esperto dell’operatore a determinare il momento di spegnere il fuoco.

Durante tutto il periodo qualcosa poteva andare storto; il pericolo maggiore era il forte vento che poteva aprire delle fenditure che, se non prontamente tappate, avrebbero mandato in fumo il lavoro di tanti giorni.
Anche le capre potevano causare danni; specialmente le più giovani potevano saltare sulla carbonaia provocando con gli zoccoli dei fori. Per far fronte alle potenziali emergenze, correva tra i carbonai, anche se di diverse compagnie, una solidarietà molto solida. Dopo aver dato l’allarme di un eventuale incendio, accorrevano tutti e in un attimo evitavano il peggio, salvando la carbonaia.

SI SFORNA

carbonaia Quando la catasta era adagiata sul fondo, la legna era cotta. I carbonai non alimentavano più il fuoco e iniziavano a sfornare. Partecipavano tutti, comprese le eventuali donne.
Tolta con attenzione la terra, ammucchiavano in un lato il carbone ancora fumante, separandolo dai sassi. Pulivano il carbone depurandolo da residui di legna non cotta, s’arrabassa, i tizzoni, come li chiamavano loro. Una volta raffreddato, lo raccoglievano nei sacchi, che potevano contenere dai 70 chili al quintale. Erano diversi dai soliti sacchi, erano confezionati appositamente più grandi, perché il carbone pesa poco.
Insaccato, veniva pesato e rimunerato.

NERI COME IL CARBONE

Dopo aver lavorato in alcune carbonaie, gli operatori, uomini e donne, diventavano dello stesso colore del carbone e arrivavano al punto che in loro si distingueva solo il luccicare dei denti e degli occhi. carbonaia
Ogni giorno, con sa cubedda, un barilotto fatto con doghe di castagno, portavano l’acqua dalla sorgente o dal fiume e si lavavano le mani, ma solo per togliere la polvere.
La domenica o in qualche giorno particolare in cui non erano molto impegnati, si recavano al fiume dove tentavano una pulizia più accurata, ma sempre molto limitata, dal momento che la polverina del carbone penetrava nei pori della pelle e resisteva alle forti abluzioni. Le loro mani in particolare erano nere e cotte.

Queste operazioni le ha ben descritte Giuseppe Dessì nel suo romanzo più conosciuto “Paese D’Ombre”.

 

 

SU CRABONI DE FRAU
IL CARBONE DEL FABBRO

Parlando di carbone e di carbonai non può mancare un cenno a su craboni de frau, il carbone che veniva utilizzato dai carbonefabbri. Era simile al carbone normale, ma era prodotto dall’erica, che aveva la caratteristica di bruciare a fiamma viva e produrre tanto calore, necessario per arroventare il ferro.
Di questo tipo di carbone non si occupavano i carbonai toscani, ma in ogni paese vi erano degli uomini che lo facevano, in ogni stagione, magari col tacito consenso delle guardie campestri, ben vigili allora, nella custodia del patrimonio comunale. Erano persone solitamente considerate senz’arte né parte, che vivevano di espedienti, come quello, appunto, di fabbricare quel particolare carbone o di cercare in foresta pertiche o scope o quant’altro, che poi vendevano per un tozzo di pane ai contadini, artigiani.
La produzione del carbone per fabbro era un lavoro difficilissimo, richiedeva una specifica specializzazione. Non si fabbricava con la solita carbonaia, ma in una cavità dove sistemavano la legna, che poi ricoprivano di terra. Erano carbonaie di piccole dimensioni, non producevano mai più di un sacco di carbone per volta.
E sì, persone e lavori d’altri tempi! ma per mettere insieme il pane di pranzo con quello per la cena facevano grandi sacrifici che oggi è difficile capire.

Si ringrazia il signor A. Allievi per le foto.

 

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