LA VITA NEI BOSCHI - UNA DI'
CUN IS FURISTERIS
UN GIORNO CON I TAGLIABOSCHI
IS FURISTERIS
A Villacidro li chiamavano semplicemente gli stranieri, is furisteris, quelli che per noi oggi sono i tagliaboschi.
Ma chi erano costoro e come vivevano in terra “straniera”?
Questo scritto è dedicato a loro, per richiamare alla memoria i loro sacrifici e per far conoscere ai giovani uno dei tanti lavori ormai andati in disuso.
Mi servirò dell’esperienza diretta vissuta durante il taglio della foresta di Coxinas, avvenuta nel 1955/56.
L’ASTA DI COXINAS
Praticato il martellamento, un segno sugli alberi che devono essere abbattuti, nel 1954 il Comune bandì all’asta pubblica la foresta di Coxinas. Se l’aggiudicò l’industriale Domenico Loi di Cagliari. Si trattava del valore di dieci milioni di allora, con la condizione che l’impresario costruisse a sue spese una camionabile dal paese alla foresta di Coxinas, fino ad allora inesistente.
Sui dettagli non sono certo, per essere più preciso con i fatti, i nomi, le date, avrei voluto consultare l’archivio comunale, ma è chiuso, nonostante il Comune abbia speso fior di milioni per sistemarlo. Dunque, vado avanti a memoria.
ARRIVANO I TAGLIABOSCHI
Era oltre la metà del mese d’ottobre e già il gregge doveva essere tenuto d’occhio poiché si avvicinava su postu po angiai, la data in cui sarebbe nato il primo capretto, e presto gli altri.
Mi trovai, una mattina verso le otto, su di una roccia a poche decine di metri dalla strada che porta alla dispensa di Coxinas nel sito chiamato Su Cùcuru de is Forrus. Il gregge sobbalzava, impaurito da voci estranee che in breve giunsero anche a noi.
“E custa genti?” “E costoro?” Chiese mio padre. E ben presto le voci si personificarono in quattro o cinque uomini che percorrevano l’antica carrareccia. Quando si trovarono oltre il canale, ci scorsero.
“E che, son pronti i capretti signor Deidda?” Chiese ad alta voce un uomo dal timbro toscano o furisteri, come diceva mio padre. Il gruppo era guidato da Salvatorangelo Mandis ed era composto da varie persone, tra cui il capomacchia, su capumatta, Ivano, il padre Germano, entrambi vecchie conoscenze di mio padre che li aveva frequentati durante il taglio della foresta di Magusu e forse anche di Villascema.
Mio padre rispose che i capretti non erano ancora pronti e il gruppo proseguì verso la dispensa. Erano giunti i suoi “nemici”, d’altronde sapeva che prima o poi sarebbero arrivati. Quelle persone venivano in foresta a prender possesso dei lavori e a fare una prima stima dei preparativi per poter iniziare per poter iniziare.
In attesa che fosse ripristinata la cantina, ormai fatiscente, cominciarono a giungere le prime compagnie di taglialegna, i quali prendevano possesso dei lotti che man mano il capomacchia assegnava.
Nel giro di poche settimane l’intero salto fu preso d’assalto da quelli che il mio bisnonno, vedendoli per la prima volta distruggere alberi plurisecolari, aveva denominati: is aramigus, i diavoli.
Gran parte dei tagliaboschi erano toscani ed emiliani, ma c’erano anche compagnie formate da villacidresi, una sola di gonnesi; i locali, frequentando quei boscaioli specializzati durante i tagli delle precedenti foreste, avevano imparato il mestiere ed erano in grado di lavorare alla pari.
Arrivavano vestiti da campagna, con uno zaino in spalla, dentro i pochi attrezzi indispensabili: una pentola, un tegamino, un paiolo di rame, il pennato o roncola, l’accetta e, non poteva mancare, una cote di forma circolare.
LA COTE
La cote veniva piazzata, subito dopo la costruzione della capanna, sopra una vaschetta piena d’acqua, ottenuta scavando un pezzo di tronco.
Essa aveva un asse le cui estremità erano appoggiate sui bordi della vaschetta e tenute ferme con strisce di pelle che fungevano da supporto. Nella parte più lunga veniva applicata una manovella. L’intero impianto serviva per affilare sa seguri e su cavunatzu, l’accetta e il pennato, i quali dovevano essere affilati come rasoi, non solo perché avrebbe facilitato il lavoro, ma anche perché le guardie forestali, di tanto in tanto, passavano per controllare i ceppi degli alberi abbattuti, i quali essere dovevano perfettamente lisci, come da regolamento. I ciocchi rimasti dovevano essere alti circa quindici centimetri dal terreno, dovevano essere tagliati in pendenza in modo che l’acqua non potesse stagnare sulla ceppaia, la cosa avrebbe provocato la morte dell’albero; inoltre la superficie della ceppaia doveva restare levigata.
SA BARRACA
Dopo aver preso possesso del lotto, badavano a costruire una capanna, sa barraca, in cui alloggiare.
Era di forma rettangolare, con due brande fatte di tronchi e frasche sollevate da terra circa ottanta centimetri. I muri erano per un tratto di pietre a secco e per il resto di tronchi messi di traverso e tamponati con zolle di terra prese dal terreno circostante, la porticina era fatta con tavolette che essi abilmente lavoravano con l’accetta. Il tetto era di frasche. Per praticare i buchi si aiutavano con un trapano a mano, sa berrina.
LA CUCINA
Dalla trave principale della capanna, su fibaritu, pendeva un fil di ferro alla cui estremità inferiore era legato un gancio di legno, al quale veniva appeso, perpendicolare al camino, sa forredda, il paiolo di rame per la cottura dei cibi.
Il menù non era molto vario. Si nutrivano per lo più di polenta che cucinavano senza sale, con un filo d’olio, tagliata a fette con del formaggio, spesso parmigiano, oppure condita con sugo di pomodoro.
Alternavano la polenta con la pastasciutta e con la pasta e fagioli. Nei giorni festivi, condivano la polenta come noi i ravioli. Cotta nel paiolo, la toglievano ben asciutta a forma di un grosso pane civraxu, quindi la stendevano su un panno che uno teneva sulle ginocchia unite, infine la tagliavano a fette sottili con un filo di cotone.
Acquistavano le provviste in genere alla dispensa, ma gli operai che lavoravano a Coxinas, vicino all’abitato, si recavano anche in paese.
IL TAGLIO
Erano bravissimi nel loro lavoro.
Tagliavano una matricina ogni dieci. Giunti ai piedi dell’albero da abbattere, lo esaminavano bene e studiavano da quale parte farlo venir giù. Non doveva cadere su un’altra pianta, perché non restasse mutilata. Difficilmente sbagliavano il punto scelto.
Un albero di media grossezza veniva abbattuto da un uomo solo, quelli più grossi da due: uno batteva da un lato, uno dall’altro senza che sbagliassero un colpo, senza che variassero l’altezza del taglio, senza che si toccassero con l’accetta e senza fermarsi fino a che l’albero non fosse in bilico sulla parte residua del tronco. A quel punto si disponevano con le spalle al fusto e gridavano: “Oh, issa! Oh, issa!” fino a quando l’albero non si accasciava in un frastuono di rami sfasciati e di fronde frantumate.
Era la vittoria.
Ovviamente il resto dei compagni era a dovuta distanza. Diramavano poi l’albero, in parte con l’accetta e in parte col pennato, che portavano sempre appeso ad un gancio in ferro infilato nella cinta dei pantaloni.
Chiamavano ramicci le frasche fino a otto-dieci centimetri di diametro e in genere le tagliavano con un colpo secco alla lunghezza del manico dell’accetta, che era di circa un metro. I tronchetti ottenuti dovevano essere tutti della medesima lunghezza, vedremo poi il perché.
Usavano l’accetta per i fusti più grossi, che rendevano sempre della stessa misura, talvolta stando in bilico sullo stesso tronco, che spesso restava a ponte tra una roccia e il terreno circostante.
Fu proprio mentre lavorava in equilibrio precario che Berto, tagliato il ponte sotto i piedi, cadde in piedi facendo impigliare il pennato, che aveva appeso alla cintola, nelle frasche circostanti e andò a conficcarsi nei muscoli della natica destra. Si provocò una ferita che richiese oltre venti punti di sutura che appose il dottor A. A. Vacca, il medico al quale si rivolsero per l’occasione. L’uomo dovette stare oltre un mese immobile coricato nella capanna mentre i compagni lavoravano.
Per gli alberi di oltre un metro di diametro e per quelli cavi a causa di malattie e del vecchiume, usavano la sega a due manici, tirata da due uomini. Per tutti gli altri alberi la lama dentata era rigorosamente vietata.
IS ÀSTUAS
Nel tagliare i tronchi con l’accetta producevano delle scaglie di legno, àstuas, che volavano intorno spinte dalla violenza del colpo. Erano la gioia dei ragazzini e grandicelli che si recavano in foresta per far provvista di legna. Le cucine a gas e il riscaldamento erano ancora di là da venire, se non in qualche raro caso. I tronchi ovviamente non potevano essere portati via, ma i frammenti di tronco e le frasche sì. Essi riempivano un sacco e lo portavano a crob’ ‘e conca, con la bocca legata in modo che il nodo formasse una specie di cuffia, che poi veniva adattata alla testa col sacco ricadente sulle spalle.
Altri andavano con l’asino con i cesti, cadinus, tenuti uno per parte, tramite un bastone o un cappio di fune.
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IS FOGAIAS
Dopo aver appezzato il tronco, accatastavano la legna in modo ordinato. Intanto i carbonai preparavano le piazzole, is fogaias, in cui fabbricare le carbonaie. Era lì attorno che i boscaioli ammonticchiavano la legna, ben messa da poter essere poi misurata in metri cubi dal capomacchia o da un suo rappresentante. La remunerazione era la bella cifra di 400 lire il metro cubo. Solo dopo che era stata valutata la legna, i carbonai potevano procedere nel loro lavoro.
Accatastare! Detto fatto, ma per trasportare il legname dal luogo del taglio alle piazzole, i boscaioli dovevano sudare sette camicie..
I tronchi più grossi venivano portati uno alla volta; per quelli sottili avevano ideato un attrezzo che consentiva loro di risparmiare fatica. Lo chiamavano il cavallo, consisteva in un robusto forcone di legno, alto quasi quanto la spalla di un uomo, sulla cui biforcatura legavano un asse piatto ché servisse da poggia-spalla. Per questa operazione lavoravano in due: uno teneva il cavallo in piedi e l’altro caricava fin quasi ad un metro di altezza, poi trasportavano, alternandosi, sino a destinazione, anche per cento metri e più.
Altri compagni provvedevano ad accatastare. Nessuno poteva permettersi di poltrire.
S'IMPOSTU
Una parte del legname veniva trasportato coi muli o coi carri a buoi in uno dei piazzali che veniva chiamato imposto, S’IMPOSTU. Intanto era stata costruita la strada di accesso al camion, che arrivava all’imposto, caricava, e portava via i tronchi che venivano venduti come legna da ardere, anche fuori paese.
Nei posti più impervi, impiegavano una teleferica, per gestirla c’era una persona specializzata. Quella del periodo in cui stiamo parlando si chiamava Ettorino anch’esso toscano.
Piazzato il cavo, vi appendevano i fasci dei tronchi tramite un gancio, ottenuto da un ramo al quale veniva legata una corda. Il carico per pendenza scivolava a valle andando a sbattere su di uno pneumatico di camion, appositamente collocato, che attutiva il colpo ed evitava che la legna si sfasciasse.
I ganci immancabilmente si logoravano o si spezzavano; qualcuno ne preparava di nuovi ed altri recuperavano quelli buoni da riciclare riportandoli al punto di partenza.
Ad alternarsi sulla teleferica erano in parecchi, tra i quali: Giuanni Bugoni, Pietro Boesca, A. A. Mandis, figlio del guardiano dell’imposto principale. A questi si aggiunse poi Angelo Orrù, figlio di Antonio, boscaiolo a Canab’ ‘e Pruna.
Dopo il primo di Cott’ ‘e Porcus, l’imposto era stato disposto definitivamente a Genna Frociddada.
La teleferica era uno strumento pericoloso e poteva causare anche gravi incidenti.
TZIU SARBADOI ORRU'
Tziu Sarbadoi Orrù, terminato il suo lotto a Canab’ ‘e Pruna, aveva finito di tagliare il residuo di un altro lotto sotto Genna de Cannas.
Piazzarono la teleferica che portava nei pressi del piazzale della dispensa. Quel giorno era lui l’addetto allo scarico. Il piazzale della cantina era invaso dai fasci di tronchi che arrivavano lì da giorni.
Giunto un ennesimo fascio, l’uomo lo sciolse dal gancio, lo prese tra le braccia lo andò a sistemare nella catasta dov’era ancora uno spazio vuoto. Nel lasciarlo cadere, colpì un pezzo di ramo in bilico tra un fascio e l’altro che saltò in aria andando a cogliere un occhio dell’uomo, cavandoglielo nettamente. Tziu Sarbadoi istintivamente si portò la mano all’occhio. Consapevole di quanto gli era accaduto, gridò disperato: “Gei apu acasagiau sa famìglia mia!” “Ho sistemato la mia famiglia!” Lo andava ripetendo più volte; il pensiero principale non era rivolto al dolore, che pure doveva esserci e forte o il danno a sé, ma per il destino della sua famiglia.
LA COMPAGNIA ORRU'
La compagnia più numerosa di boscaioli villacidresi era senz’altro quella dei fratelli Orrù, i quali avevano la capanna nei pressi della sorgente di Canab’ ‘e Pruna. Era composta da: Sarbadoi, Antonicu e Luiginu Orrù, Chichinu primogenito di Antonicu e Chichinu secondogenito di Luiginu, Peppino Atzeni, Chichinu Piras (Picutanas) e il figlio Angelo. I ragazzi erano molto giovani, ma allora si scapàt a pei a lestru, si imparava presto a lavorare, ed essi, nonostante la giovane età, avevano già partecipato al taglio della foresta di Magusu e Villascema.
Tutti erano ormai pratici del mestiere: segànt e codiant, tagliavano e cuocevano, erano cioè boscaioli e allo stesso tempo carbonai.
ARMANDO E I MULI
Il conduttore e principale responsabile dei muli si chiamava Armando ed era forse sordomuto; il che non gli impediva di lanciare forti urla gutturali che risuonavano nelle vallate, facendo tremare le bestie che ne avevano gran timore. Pare che egli, a fine campagna, si fosse sposato con una donna di Gonnosfanadiga, stabilendosi in quel paese.
Chissà se sarà ancora vivo!
I muli, a fine della dura giornata di lavoro, rientravano al loro rifugio situato tra gli alberi di leccio, alla sinistra dell’attuale fontana di Su Campu de Cantina di Coxinas.
IL CAPOMACCHIA
Il capomacchia aveva affittato anche una casa in paese, in via Tuveri, esattamente quella che oggi è di proprietà di Pietro Deidda, allevatore. Gli serviva come base per depositare i materiali prima che, caricati sul camion o sui carri a buoi, venissero portati nella dispensa in foresta.
Il taglio, iniziato nel mese di ottobre, doveva essere completato a fine marzo , perché gli alberi andavano in vegetazione e non potevano essere sfondati, tagliati. Per questo motivo, quando si avvicinava quella data, i tagliaboschi affrettavano il taglio, lasciando il lavoro di sfrondamento e appezzamento ad un secondo momento, poiché poteva essere fatto successivamente.
LA PULIZIA DEL BOSCO
Un lavoro molto faticoso era l’ABBRUCIAMENTO delle frasche residue. Avveniva in genere la sera tardi, quando non era più possibile tagliare per l’oscurità, e mentre uno dei boscaioli si recava alla capanna per approntare la cena. Lavoravano fino a tardi, fino a quando il cuoco di turno gridava:
“L’è cotta!”
Solo allora rientravano a mangiare il loro magro sudato pasto.
Ma perché non potevano trascurare di bruciare le frasche?
Sarebbero stati cavoli amari. I guardaboschi Occhioni, Cirelli e, se non ricordo male, il brigadiere Podda, facevano buona guardia, passando spesso a ispezionare perché il taglio fosse fatto a dovere e perché le fronde rimaste non fossero state lasciate vicino agli alberi sopravvissuti e soprattutto sopra le ceppaie, o senza che fossero bruciate.
Ed avevano ragione.
Le frasche, specialmente quelle tagliate durante l’inverno, sarebbero durate anni; ne ho viste in posti dove il controllo era stato poco attento, ammucchiate e intatte a distanza di cinque anni dal taglio.
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