L’autunno timidamente cominciava a vestire dei suoi colori il paesaggio
circostante Villacidro. Il piccolo centro, abbarbicato fra le due vette che
sovrastavano il Campidano, Monte Omo e Monte Cuccureddu, ammiccava con le
sue casupole di fango e paglia, dai tetti di tegole di terracotta rossa. Il
campanile medievale di Santa Barbara, che dominava imperioso sulle povere
abitazioni, rintoccava l’ora con le sue campane di bronzo, qualche anno
prima donate alla piccola parrocchia dal Vescovo in persona.
Villacidro era davvero un bel paesello. Composto da poco più di mille
abitanti, costituiva un forte richiamo per i paesi circostanti. I suoi ricchi
orti di ciliegi e aranci e i suoi uliveti producevano quanto di meglio quello
scorcio di Sardegna sud occidentale potesse offrire allora. E tuttavia, il
piccolo centro non viveva solo d'agricoltura: sulle sue montagne, oltre il
Leni, e su quelle a nord, verso Monte Margiani, i pastori villacidresi portavano
le loro capre al pascolo, fra arbusti di lentischio e lecci secolari; e a
est, oltre le ondulate colline che cominciavano a divenire pianura, le vacche,
i buoi e le greggi di pecore, dominavano il paesaggio, alternandosi a campi
di grano e distese di uliveti e mandorli, salvo qualche sporadica intromissione
di sughereti che, incrinati e contorti dal vento di maestrale, erano stati
un tempo gli unici dominatori della flora circostante.
I villacidresi amavano il loro paese a imbuto. In una posizione sovrastante,
era un intrico di viottoli sterrati e stradine di pietra che si arrampicavano
nei pendii circostanti, per perdersi nei sentieri, tra fitti boschi di lecci
rigogliosi che regnavano sulle loro addolcite pareti; oppure, laddove il collo
dell’imbuto si stringeva, sfumavano verso l’interno, nella ricca
boscaglia di Castangias, ove sgorgava una piccola sorgente che, divenendo
un piccolo fiumiciattolo (il rio Fluminera), tagliava in due il piccolo centro
pedemontano.
La piazza di Santa Barbara era il centro del paese. A ridosso dell’imponente
chiesa medievale e delle due chiesette commemorative dedicate alle Anime e
alla Madonna del Rosario, v’era una piccola piazzola assai trafficata
dal via vai quotidiano di donne che, piegate dalla fatica del bucato, tornavano
dal Lavatoio con le ceste della biancheria sul capo, e di uomini che, altrettanto
stanchi e logori per la dura giornata di lavoro, provenivano dalle campagne
circostanti, sognando un ceppo e una cena calda.
Oltre la piccola piazza, costruita con fitti mattoncini rettangolari, e di
fianco alla chiesa delle Anime e al Montegranatico, si apriva un altro ampio
rondò: piazza Zampillo, la quale, tra le verdi fronde di imponenti
alberi di tiglio, dominava lo scarno paesaggio con la sua fontana circolare
e le sue panchine di legno ingrossato dagli acquazzoni invernali. Punto di
incontro, in quella stagione tardo estiva, di vecchi e giovani, era circondata
da consumati edifici di pietra e fango e dal piccolo rio Fluminera che separava
la piazza dalla via Roma, la quale saliva, prima di proseguire più
giù verso piazza Funtanedda, sulla piazza Frontera, dalle cui fitte
scalinate si accedeva al vecchio convento dei mercedari, divenuto poi il Municipio.
Ma è proprio andando oltre piazza Frontera, scendendo verso piazza
Funtanedda, verso la periferia estrema di Villacidro, dove le case si diradavano,
alternandosi sempre più frequentemente all’aperta campagna, agli
orti di aranci e di ciliegi e ai non più infrequenti uliveti, che inizia
la curiosa storia che vede protagonista una delle famiglie più in vista
e benestanti del paese: i Dettori.